di Marco Potenza
Ricercatore presso il Dipartimento di Fisica dal 2003, si occupa
di sviluppare strumentazione ottica con applicazioni scientifiche e
industriali.
Ha sviluppato uno strumento che ha volato sulla Stazione Spaziale
negli scorsi due anni, per lo studio di processi di formazione di cristalli a
partire da nanoparticelle. Per questa attività nel 2009 ha ricevuto il premio
Ricerca.tissimi della Regione Lombardia.
È responsabile per UniMi di un
progetto europeo per lo sviluppo di strumenti di monitoraggio di fluidi nelle
linee di produzione nell’industria della nanoelettronica. È coautore di 4 domande di brevetto, due delle quali concesse in Europa, Stati Uniti e Giappone. Una delle tecniche sviluppate è stata vincolata dalla Marina degli Stati Uniti.
Come risulta dall’etimologia del termine, l’università è un
luogo dedicato all’universalità delle
discipline, che vengono sviluppate e
insegnate coniugandole come parti di un tutto che diventa molto più
della somma delle singole parti. Oggi perfino la Società trae vantaggio da
questo tipo di paradigma in cui ciascuna componente, dagli individui umani agli
oggetti materiali, rappresenta un elemento integrato nel complesso circostante.
Anche la scienza in senso lato, la conoscenza, si è mossa in questa direzione;
chi prima, chi dopo, l’interdisciplinarietà negli ultimi decenni ha avuto una
diffusione sempre maggiore. Sembrerebbe quindi che l’Università sia il luogo
ideale per capire, costruire e valutare la realtà di oggi e, molto
probabilmente, anche quella di domani.
Come giovane ricercatore mi trovo però insoddisfatto da
questo punto di vista. Interagendo con colleghi provenienti da dipartimenti,
facoltà, atenei diversi si respirano un presente e un futuro che sembrano quasi
in controtendenza rispetto alle trasformazioni della società civile,
produttiva. Rivolgendo l’attenzione all’estero, invece, sembra molto più facile
trovare interdisciplinarietà, collaborazione, integrazione.
Agli studenti vengono
sempre confezionati programmi troppo ben definiti, ben distinti da tutto il
resto, perché viceversa a loro sarebbe richiesto lo sforzo ulteriore di
cogliere e concettualizzare l’universalità. A ciascuno, studenti compresi,
questo riesce secondo uno schema proprio, soggettivo, frutto della propria
esperienza e cultura, secondo parametri difficili da misurare e quindi da integrare
in un corso, o in un insieme di corsi.
Sempre parlando con i colleghi in Italia
e all’estero mi rendo sempre più conto che una possibile causa di questa
situazione non sia da attribuire a fattori contingenti o strutturali, quali ad
esempio la consueta mancanza di fondi della ricerca Italiana. Mi pare invece
che il problema risieda nel fatto che sta venendo a mancare la consapevolezza
dell’intero sistema verso sé stesso. Non è un caso che l’indirizzo della
ricerca stessa e delle sue modalità di operare sia oggi orientato a obiettivi
superiori, idealistici (l’”eccellenza”,
la “meritocrazia”, la “trasparenza”, per esempio), magari concretizzati in
splendide grandezze numeriche inattaccabili, che da strumenti di raggiungimento
degli obiettivi si trasformano in veri e propri assiomi di fondamento, di definizione, degli obiettivi stessi.
Sono
convinto che soddisfare un criterio non possa portare automaticamente
all’eccellenza, qualunque sia la soglia che viene posta: è possibile fissare un
criterio per superare il record mondiale di qualsiasi disciplina? Una parola
che mi piace molto più di “eccellenza” è l’inglese “outstanding”.
Un esempio riguarda una delle realtà più nuove create in
UniMi. L’Università negli ultimi anni ha accolto una sfida importante e
difficile da parte del Ministero, che potrebbe già oggi rappresentare una via per
seguire e magari raggiungere realtà eccellenti (o meglio, outstanding) in tutto
il Mondo. Ci siamo dotati di una Commissione, di un Ufficio ma soprattutto di
una notevole competenza nel campo della tutela della proprietà intellettuale: uno
strumento molto importante per la valorizzazione della ricerca scientifica (si
veda l’articolo recente del Prof. Pocar su Sistema
Università). Centinaia di colleghi hanno tentato questa strada, outstanding
di per sé, facendo uno sforzo che ha portato alla nascita di una nuova cultura
all’interno di UniMi. Qualcosa di molto
più grande, forte e stabile dei risultati dei singoli, da cui molti altri oggi
possono, e potranno anche domani, trarne vantaggio. Chi ha seguito questa
strada, ha creduto che il Paese volesse investire in conoscenza scientifica e
trasferimento tecnologico in un modo del tutto nuovo.
L’investimento è stato
fatto, e molte realtà produttive ne hanno anche tratto un vantaggio
competitivo. Ma cosa resta all’università? Con i parametri di oggi questo
investimento appare come il risultato del lavoro di persone forse un po’
“strane”, che non credevano nella scienza pura e nei suoi “indicatori
d’eccellenza” (ma hanno creduto al Ministero solo pochi anni fa) e che non
pubblicando parte dei propri risultati non hanno oggi citazioni e h-index
elevati. Non possono certo eccellere oggi, anche se la strada percorsa era
quella lungo la quale sono stati fatti gli investimenti con i quali avrebbero
potuto eccellere gli atenei che li ospitavano.
Ci sono varie soluzioni, dall’emigrare all’estero al
cambiare attività di ricerca e ripartire; ma cosa resterà al sistema
università, anche e soprattutto in senso etimologico? L’Ateneo potrebbe formare
studenti in modo del tutto nuovo con le competenze accumulate dai docenti che
hanno seguito questa strada, cosa già apprezzata oggi dagli studenti che
vogliono entrare nel mondo del lavoro. Potrebbe sviluppare ulteriormente l’interdisciplinarietà
con ponti nuovi, costituiti anche dal trasferimento tecnologico e
dall’interazione con le realtà produttive.
Più in generale potrebbe dimostrare che una delle prerogative della ricerca, l’essere “divertente” per chi la svolge, può essere considerato anche uno dei vantaggi maggiori dal punto di vista della Società di oggi e di domani. Il continuo rinnovamento, la mancanza di una strada prevista, l’universalità e l’interconnessione delle tematiche trattate, elementi che hanno sempre contraddistinto la ricerca, proprio oggi sono diventate categorie profondamente radicate nella Società Civile. Per citare Darwin: “Non è la specie più forte a sopravvivere, e neppure la più intelligente. Sopravvive la specie più predisposta al cambiamento”.
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